Ciò che mi
ha subito colpito di fronte al lavoro di
ZITO, prima di ogni altra
considerazione, è l'impiego singolare
della luce,dell'elemento luminoso, come
tessuto portante della costruzione e
della impaginazione dell'immagine. Si
tratta infatti di una luce
onnipresente,che tiene tra loro queste
tele come un unico mastice, come un
bianco denominatore comune. Una luce
candida ed accecante, che brucia via
ogni possibile dettaglio dell'ambiente o
degli sfondi in cui i personaggi delle
opere si muovono ed agiscono, come
incastonandoli e scolpendoli nell'avorio
di un tempo senza luogo definito, senza
riferimenti oggettivi. Non è infatti,
questa di Zito, una luce fisica: una
sensibile somma cromatica di toni e
sfumature. Né del resto si può dire che
essa in qualche modo appartenga alla
natura, pure se nella sua definizione,
le atmosfere incendiate di sole della
terra in cui vive il giovane autore, con
il loro affocato sbiadire ogni ombra e
contrasto, con il loro abbacinante e
bruciante appiattimento di ogni
risoluzione ottica, c'entrano pure per
qualcosa. In realtà si tratta più di un
elemento espressivo e poetico che di un
referente di tipo naturalistico. C'è
infatti qualcosa di metafisico in lei;
una "astrazione" che la rende parte
integrante della definizione psicologica
dell'opera e che, dunque, giunge a
connotarla e stigmatizzarla nell'ambito
mentale appropriato. È, insomma, una
luce-simbolo, un emblema che introduce
correttamente alla lettura contestuale
delle immagini, esaltandone tutta la sua
essenzialità. E queste immagini sono,
appunto, essenziali. Affilate, icastiche
nella loro presenza figurale, esse
parlano un linguaggio semplice e
complesso ad un tempo. Che cosa vogliono
dirci questi personaggi solitari,
avviluppati nel loro silenzio duro come
una pietra di tufo candido, privi, come
sono, di ogni possibile eco, di ogni
improbabile trasalimento? I loro gesti,
i loro sguardi, i loro atteggiamenti
sono colti e congelati dal nitido
sigillo dell'autore in maniera
impietosa. Le loro solitudini, le loro
disperate assenze di ogni reale palpito
di vita, di autentica comunicazione
interpersonale, sono evidenti,
palpabili. Zito insegue dunque in questi
volti e in questi atteggiamenti la
traccia, il filo conduttore di un
sentimento vivo e lucido della
solitudine contemporanea, della
inquietante riduzione di spessore umano
che circostanze di questi nostri anni
agitati vengono sempre più inducendo in
noi. Si tratta di un giudizio dolente,
partecipato, in cui s'avverte la traccia
accesa di una identificazione, di una
risoluta solidarietà dell'artista nei
confronti dei suoi soggetti. Ma tale
solidarietà, per quanto trepidante ed
avvertibile, non può giungere a scalfire
il bozzolo d'alienazione che circonda i
personaggi. Essi - e noi con loro - sono
irrimediabilmente condannati
all'inaudito destino di solitudine che
ci siamo oggi costruiti intorno. Come si
vede, non è certo una pittura
ottimistica o lieta quella di Zito. Ma
d'altra parte, ogni vera operazione di
poesia - e qui siamo davvero di fronte
ad una tensione poetica e ad un talento
già robusti e maturi - presuppone un
rapporto con la realtà di conoscenza e
di scavo, senza infingimenti o intenti
artificialmente consolatori. La vera
poesia non traveste le cose, non le
trasforma per consolarsene. Queste
immagini, dunque, si intrecciano
profondamente, dolorosamente, al nucleo
più intimo e bruciante dell'attuale
condizione umana e di questo nucleo
indifeso e tremante, intendono darci una
articolata, toccante, suggestiva
testimonianza. E non è che sia una
testimonianza nutrita solo di sentimenti
in qualche modo languidi, di nostalgie
indefinite per un'altra condizione. Non
v'è nulla, in effetti, di "sentimentale"
in questi sentimenti. Si tratta di una
persuasione razionale; si tratta
dell'acuto manifestarsi di un bisogno e
di una insoddisfazione concretissimi,
sanguigni. Di un sentimento "laico",
insomma, che è poi il motore della
volontà per un possibile cambiamento: il
motore della voglia, del desiderio di
futuro differente in un mondo che abbia
di nuovo posto per gli uomini. Il merito
di Zito - e la ragione, anche, di queste
righe - è proprio quello di aver
tradotto nelle opere il carico di tali
questioni, per il tramite di un
linguaggio pittorico di grande impatto
emotivo, persuasivo ed efficace. Abbiamo
di fronte una pittura che forse non ha
ancora raggiunto completamente ogni
livello delle sue possibilità ma che,
indubbiamente, si colloca già sul
terreno di esiti attivissimi. Una
pittura che, con la sua personalissima
traduzione di taluni stilemi
dell'iperrealismo nordamericano, visti
qui come una sorta di suggestiva
rivisitazione delle sorgenti veriste di
una certa nostra cultura, e giunta oggi
a distillare un rapporto singolare tra
l'immagine dipinta e la memoria
dell'obiettivo fotografico. Il taglio,
la composizione, la stessa
monocromaticità sono, infatti, spesso,
di evidente derivazione fitografica. Ci
riportano a quelle abitudini alla
visione ed alla letteratura delle
immagini che abbiamo ormai acquisito
dalla nostra civiltà fatta di messaggi
visivi e di fotoriproduzioni. Ma il
ricorso a questo "comune senso del
vedere" Zito lo pratica armato di una
consapevolezza critica, acuta e pungente
direi costruttiva o, meglio,
ricostruttiva. È una coscienza puntuale
dei meccanismi significanti e delle
tecniche percettive - che tra l'altro
l'autore conosce a fondo per le sue
attività nel settore grafico e
pubblicitario - impiegata qui per
rafforzare l'efficienza poetica ed
emozionale delle tele. Insomma, Zito
lavora alla confluenza di stimoli e
riferimenti diversi, in un punto
d'incandescenza da cui le immagini che
egli costruisce sgorgano tese e
pregnanti, apparentemente consuete e
"neutrali" e, invece, cosi cariche di
sentimento, di giudizio: cosi dense di
appassionata, stimolante partecipazione
esistenziale.
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